La Corte di Cassazione definisce, tecnicamente, il diritto all’oblio come il “il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”.
In altri termini, il diritto all’Oblio è la possibilità, riconosciuta a chi in passato ha commesso un reato più o meno grave, di domandare che la vicenda non sia più pubblicizzata o divulgata dalla stampa e da altri mezzi di informazione, incluso internet. Ciò a condizione che, dal fatto-reato sia trascorso un congruo lasso di tempo e che lo stesso non sia tornato ad essere di pubblico dominio e di pubblico interesse.
In definitiva, nell’ipotesi in cui un soggetto abbia compiuto in passato un reato (ipotizziamo, qualche anno fa) può reclamare ad operatori della Rete – come Google, Wikipedia, Facebook e alle varie Agenzie di stampa – di rimuovere articoli, approfondimenti, foto e video dell’epoca, ivi compresi i risultati di ricerca ad essi correlati e considerati dannosi della sua reputazione.
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Come applicare il diritto all’oblio?
L’entrata in vigore del GDPR – General Data Protection Regulation, nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati – rappresenta un passo importante. Dopo una lunga attesa, infatti, il diritto all’oblio viene dotato di un regolamento “attuativo” che ne stabilisce portata e limiti. Una novità sostanziale rispetto al panorama precedente, nel quale il diritto all’oblio era riconosciuto solo a livello giurisprudenziale, giudicato caso per caso, in assenza di specifiche prescrizioni circa il campo e la modalità di attuazione.
Dunque, oggi, il diritto all’oblio presenta una procedura di applicazione ben definita. Nel GDPR è denominato più genericamente “diritto alla cancellazione” ed è regolamentato in tre diversi articoli, precisamente gli articoli 17, 18 e 19. In particolare, l’articolo 17 chiarisce le condizioni che consentono al soggetto interessato di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano e senza ingiustificato ritardo.
Precisamente, se non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; se l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento; se l’interessato si oppone al trattamento dei dati; se i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo giuridico previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; se sono stati trattati illegalmente. Continua l’art’ 17, precisando che, tuttavia, il diritto all’oblio non trova applicazione quando il trattamento sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione; nel caso ci sia un obbligo legale a cui adempiere, si pensi ad una sentenza o motivi di interesse nel settore della sanità pubblica; nel caso in cui i dati siano archiviati ai fini di ricerca scientifica, storica o statistica.
Sul piano pratico, uno dei modi più efficaci per dare reale attuazione al diritto all’oblio è la deindicizzazione. Si tratta di una operazione tecnica che annulla la possibilità di reperire, a seguito di una ricerca nel web, determinati link ovvero riferimenti. Essa rappresenta, certamente, la principale operazione tecnica attraverso cui dare piena attuazione al diritto all’oblio ma non è la sola. Se la deindicizzazione serve ad eliminare un determinato nome, un determinato oggetto di ricerca in rete, un ulteriore strumento utile, soprattutto quando la lesione proviene da uno specifico contenuto o articolo web, è la rimozione del contenuto stesso.
Diritto all’Oblio su Google
Sul punto, inevitabile il richiamo a due storiche sentenze della Corte di Giustizia che hanno ben definito lo spazio entro cui si muove il diritto all’oblio.
Con la prima pronuncia, nel 2014, i giudici della Corte hanno stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di richiedere che alcune informazioni siano rimosse se queste sono “non adatte, irrilevanti o non più rilevanti”. Secondo la Corte, se, cercando qualcosa sul proprio conto su Internet, si trova un contenuto segnalato nella pagina dei risultati di un motore di ricerca che si ritiene non rilevante, deve essere possibile chiederne la “deindicizzazione” alla società che gestisce il motore di ricerca stesso, indipendentemente dall’esistenza online di quel contenuto. In caso di inadempienza, il cittadino ha poi il diritto di ricorrere alle autorità competenti per ottenerne la rimozione. Decisione, quella della Corte, che all’epoca fece molto discutere, criticata da Google, in quanto motore di ricerca più utilizzato, direttamente coinvolto nella vicenda (la Corte, infatti, si pronunciò su un ricorso presentato da un cittadino spagnolo proprio contro la società).
In definitiva, essendo anche Google responsabile dei dati dei soggetti i cui nomi sono indicizzati dal motore di ricerca, la persona che intenda esercitare il diritto all’oblio potrà farne richiesta a Google domandando di deindicizzare la pagina di riferimento e nel caso di inerzia della società, l’interessato potrà rivolgersi al titolare del sito internet, successivamente, in assenza di risposta, potrà farsi ricorso al Garante della Privacy o, ancora, al tribunale in via d’urgenza.
La seconda pronuncia è intervenuta nel 2019. Con essa i giudici della Corte hanno confermato il dovere di Google di cancellare i risultati dal motore di ricerca ma solo nelle sue versioni europee (Google.it, Google.uk, Google.es, Google.fr, Google.de, ecc.) e non, invece, nella versione “americana” che è anche quella mondiale (Google.com). Evidentemente perché solo le “dislocazioni” europee del motore di ricerca sono soggette alle pronunce della Corte di Giustizia.
Diritto all’Oblio su Facebook
Quando si parla del diritto all’oblio su Facebook, ossia il diritto degli utenti ad ottenere la cancellazione dei post e delle discussioni che li coinvolgono quando le vicende sono ormai superate, quindi lesive della propria privacy, occorre, anzitutto, considerare che Facebook non funge da motore di ricerca. Al contrario, è una piattaforma di condivisione di dati, caricati autonomamente dagli utenti. Di conseguenza, non potrà parlarsi, di pagina o sito da deindicizzare.
Viene, allora, da chiedersi in che modo può applicarsi il diritto all’oblio su Facebook. Infatti, anche se il titolare del profilo può, nelle impostazioni della privacy, rendere non indicizzabili i propri dati, non c’è certezza che ciò avvenga. Attraverso una ricerca su Google, digitando cognome e nome di una determinata persona potrebbe comparire anche una pagina Facebook. Orbene, in casi simili, sarebbe opportuno richiedere la cancellazione del contenuto illecito direttamente al titolare del profilo o dell’amministratore del gruppo su cui è presente. In caso di mancata risposta, la richiesta di diritto all’oblio andrà inoltrata a Facebook. Tuttavia non mancano casi di mancate risposte o di rinvii della richiesta stessa, da parte della società, all’autore dello scritto (così come del resto prevede la direttiva europea sui servizi elettronici che esonera da ogni responsabilità l’intermediario). A questo punto, non resta che rivolgersi alle autorità competenti.